Non sono amante delle spy story, di solito non ci capisco una mazza, ma la scrittura di Greene è così chiara e piacevole, è così bravo nella caratterizzazione dei personaggi, che non puoi non amare i suoi romanzi, riesce con maestria a farti affezionare a figure apparentemente scialbe. E questa è anche una storia d’amore e di riconoscenza. Forse della trama non ricorderò un granchè, ma non mi scordo Il ritratto commovente del protagonista e del suo dramma umano, il quale, persa la fede nel suo paese, nei Servizi Segreti, senza più lealtà nei confronti di colleghi e superiori, con un impresa solitaria e disperata inizia una partita ambigua e crudele in cui vincerà il fattore umano, l’ultimo baluardo in cui credere: l’amore.
...ContinuaL'incipit de "Il fattore umano" è esemplare nel mostrare la grandezza della scrittura di Graham Greene: "Da quando oltre trent'anni prima, era entrato a far parte dei Servizi come giovane recluta, Castle era sempre andato a pranzare in un pub dietro St James's Street non lontano dall'ufficio. Se gliene avessero chiesto il perché, avrebbe citato l'ottima qualità delle salsicce; come birra, avrebbe forse preferito una marca diversa dalla Watney's, ma la qualità delle salsicce faceva passare questo particolare in secondo piano. Castle era sempre in grado di dare conto delle proprie azioni, anche le più innocenti, era immancabilmente puntuale".
Allora, la prima cosa che colpisce è l'ordinarietà di questo paragrafo iniziale. La scrittura di Greene è sempre così: apparentemente priva di qualsiasi virtuosismo, piana e semplice, ma in realtà curatissima nel suo gioco a scomparire per far emergere i suoi personaggi. Cioè, quello che voglio dire è che Greene autore cerca di rendersi invisibile, affinché sia la storia, il suo dipanarsi, i dilemmi morali dei suoi personaggi a emergere. E per far questo se da una parte serve la capacità di celarsi, dall'altra serve quella di far spuntare i personaggi. E in manco dieci righe, Greene fa un ritratto vividissimo di Castle, il protagonista di "Il fattore umano". Ormai oltre la sessantina, membro dei Servizi segreti britannici, Castle vorrebbe vivere soltanto una vita pacifica, ritirarsi in pensione. Castle, ci viene presentato, come un uomo ordinario.
Ecco, a questo proposito. Sono tantissimi i rimandi espliciti a James Bond, in particolare al certo tipo di Servizi Segreti che vengono messi in scena da Ian Fleming. Quella di Greene è, infatti, dichiaratamente un'opera che si vuole porre all'opposto di James Bond: sia per stile - un romanzo di spionaggio tanto ricco di tensione quanto privo di azione, quasi tutte le scene si svolgono in case borghesi, nell'alta nobiltà, viene sparato un unico colpo di pistola -, sia per la sua posizione politica. "Il fattore umano" è un'opera estremamente critica verso il Regno Unito degli anni '70 e, soprattutto, verso le sue posizioni riguardo l'Apartheid africano. Mi tengo sul vago proprio perché nonostante l'estrema profondità psicologica e tematica, "Il fattore umano" è una spy-story perfetta. La tensione deriva tanto dai temi morali che dalla componente thriller. E sarebbe un peccato rovinarlo.
I personaggi di Greene sono personaggi sfaccettati, che riescono a essere tratteggiati vividamente in pochissime frasi - proprio come nell'incipit. E' un mondo, quello dei servizi segreti britannici, che se da una parte è profondamente realistico - Greene stesso si era posto l'obiettivo di dare un'immagine demitizzata dei servizi segreti, e credo che già questa scelta implicasse una particolare visione politica - dall'altra è usato come sfondo per il dilemma morale di Castle, ovvero il tradimento e la lealtà. Però, quando dico sfondo, non vorrei si pensasse che sia una scusa o, peggio, una metafora. Assolutamente. Le scelte morali di Castle sono profondamente reali proprio perché l'uomo contemporaneo è costretto a simili scelte, in un mondo in cui gli ideali sono belli che andati. Castle si definisce un quasi credente. Privo di fede religiosa, privo di quella politica - che fede politica può esistere nel 1978, in piena guerra fredda, dopo Budapest, il Vietnam, Hiroshima e i Gulag? -, Castle è ormai vecchio e stanco. Sposato con una donna, Sarah, molto più giovane di lui, e soprattutto africana, fuggiti insieme dal Sud-Africa in piena segregazione, Castle si interroga sulle proprie azioni, sulla bontà delle sue azioni. All'opposto di Castle vi è il Dottor Percival, che alla perdita della fede, ha risposto con tutto il cinismo del potere, in particolare del poter scegliere da che parte stare in base a chi ha più percentuale di vincita. Per ora, è l'occidente. Ma per tornare a Castle, quando non si può più avere fede nello stato o in che so io, vi è un ultimo necessario baluardo in cui credere: il fattore umano, quello che la letteratura ha sempre proclamato "il rischio assoluto: l'amore".
Libro uscito nel 1978,ispirato alla storia vera di Kim Philby, agente del MI5 britannico che segretamente passava informazioni ai russi. Maurice Castle, grigio funzionario dell'intelligence inglese con competenza su una parte dell'Africa, passa segretamente informazioni ai sovietici, ai quali è legato da un debito di gratitudine perché, anni prima, quando era di stanza nel Sudafrica dell'apartheid, lo hanno aiutato a fare fuggire da quel paese Sarah, giovane donna di colore (e sua "agente"sul posto) di cui si è innamorato e il di lei figlioletto (che tutti credono figlio anche di Maurice, in realtà frutto di una relazione con un attivista anti apartheid). A Londra i tre hanno trovato una rassicurante routine, finché, un giorno, i superiori di Maurice capiscono che dalla sua sezione è in atto una fuga di notizie. La ricerca della "talpa", tra clamorosi errori (sospetteranno dapprima il collega di Maurice, che sarà frettolosamente fatto fuori) e colpi di scena, fa comunque "terra bruciata" attorno a Castle, inducendolo a chiedere aiuto ai russi. Questi lo faranno fuggire a Mosca, ma non riusciranno a farlo raggiungere da Sarah e dal bambino, che rimangono a Londra. Il romanzo chiude con Castle che si sente sempre più solo e deluso, in un paese del quale non conosce neppure la lingua. Un gran bel romanzo di Greene, che tiene incollati alla pagina, pur non avendo inseguimenti mozzafiato né altri cliché dello spionaggio. Alcune scene memorabili, tra cui quella a casa dell'ex moglie di un superiore di Castle, ossessionata dalla sua collezione di civette di porcellana, sono giocate sul registro del grottesco e del ridicolo, segno che quando un autore è veramente bravo, può anche permettersi di giocare un po'con i registri. So di andare controcorrente, ma personalmente simpatizzo con Muller, il funzionario del servizio segreto sudafricano che tenta di mettere i bastoni tra le ruote a Castle, il quale, in fondo, non è altro che un traditore del suo paese, ed è giusto che paghi un prezzo per il suo tradimento.
...ContinuaIn realtà, non ricordo proprio perché ho comperato questo libro. Forse nella mania di possedere tutto di tutti gli autori. Pensavo fosse all’interno di qualche lista che nel tempo stilo, ma negativo anche quello. Comunque, l’ho letto. E, seppur non bellissimo, è quanto meno interessante. D’altra parte, Greene ha una scrittura di una lievità che taglia in profondo. Da studiare. Ed è forse solo per questa bravura dello scrivere che il libro risulta di una soddisfacente lettura. Che la storia in sé non decolla mai, non riesce a coinvolgere, anche se in vari punti ci sono elementi di entomologia scrivana di sicuro interesse. Come più volte accade negli scritti di Greene, siamo in un ambiente tipicamente, marcatamente inglese. Con personaggi che tipizzano diversi modi di essere. Soprattutto, poi, siamo negli ambienti dei Servizi Segreti, che nella mia testa hanno rimandato subito sia a quell’eponimo “Il nostro agente all’Avana”, sia a quel forse meno noto, ma sicuramente molto più forte, per me, “Un americano tranquillo”. Certo, qui non siamo più negli anni Cinquanta in Asia o Sessanta nei Caraibi. E si sente. Tutto si svolge nella tranquilla Londra, anche se i protagonisti hanno vissuto pesanti anni sudafricani, nel mezzo dei più duri forse dell’apartheid. La figura centrale è l’agente Castle, per diversi anni a Johannesburg, dove, in barba alle leggi razziali, si innamora di una donna di colore. Sta per essere incriminato dai funzionari del Partito al potere (per l’apartheid frequentare una donna di colore era un reato penalmente perseguibile), quando, con l’aiuto di un agente russo infiltrato, prima fugge in Mozambico (in particolare a Lorenço Marques, la capitale, ora rinominata Maputo), poi, raggiunto dalla bantu Sarah, con lei riesce a tornare a Londra. Dove gli viene affidato un lavoro d’ufficio, anche se sempre riguardante il sud emisfero africano. Si sposa con Sarah, riconosce il di lei figlio come proprio, e comincia una vita apparentemente tranquilla. L’azione ora si svolge sette anni dopo la fuga. Castel divide l’ufficio con l’esuberante Davis, ha una routine senza scosse con Sarah ed il figlio Sam, ha contrasti normali con la madre (un po’ cacacazzi), ha rapporti sereni con i superiori. Ma è tutta apparenza, che in realtà, per un debito d’onore con chi lo ha salvato dalle grinfie della polizia sudafricana, diventa un oscuro agente segreto russo. Passa una serie di informazioni ad un contatto, che non conosce, lasciando notizie di una banalità sconcertante, in improbabili nascondigli. Tutto potrebbe continuare all’infinto, se il nuovo capo sezione non subodorasse una fuga di notizie. Qui c’è tutta la descrizione dell’aristocrazia dei Servizi, quella scottata, e molto, da Philby e compagnia. Il capo dell’MI5, il patologo principe, i capi sezione, sono descritte, anche se brevemente, ma con un forte distacco. Sono persone abituate a giocare sulla scacchiera della vita, vanno alla caccia alla volpe, alla pesca alla trota, mangiano nei loro Club esclusivi. Proprio sulla scacchiera possono decidere di sacrificare un alfiere, per cercare di dare scacco matto all’avversario. Così, ipotizzata la fuga di notizie, decidono che il colpevole sia Davis, che viene presto eliminato. Crisi morale di Castle, che cerca di uscire dal gioco. Peccato che abbia sottomano un’ultima, nodale notizia. Decide di fare l’ultima trasmissione, ma sa che così dovrà uscire di scena. Che verrà scoperta l’innocenza di Davis, e, due più due fanno quattro, la sua colpevolezza. Ma in Castle l’onore può più dell’ideologia. Agisce, e deve sparire, lasciando però moglie e figlio a Londra. Tutta la parte finale è giocata sul filo della vita moscovita dei fuorusciti inglesi, e dai ricatti che in patria i Servizi Segreti fanno alla moglie ed al figlio. Riuscirà la famiglia a ricongiungersi? Riuscirà Castle a far capire la sua posizione? Ed altri analoghi temi. L’idea di Greene, in fondo, era semplice e duplice. Far vedere l’orrore quotidiano di un mondo che stava soccombendo all’idea che lo spionaggio fosse tutto “alla James Bond”. Anche Green aveva fatto parte di quel mondo, e ben sapeva che, per la maggior parte del tempo, era un lavoro di lettura intelligente di scartoffie, e di riordinamento delle stesse all’interno dei diversi scenari internazionali. L’altra freccia nell’arco dello scrittore è la volontà di criticare l’ipocrisia che il mondo occidentale stava utilizzando nei confronti delle misure segregazioniste sudafricane. Non a caso, pochi mesi prima della scrittura del romanzo, una trentina di nazioni africane non parteciparono alle Olimpiadi di Montreal per boicottare questo atteggiamento lassista verso il governo Vorster (uno dei più duri difensori del regime). Ma se questi propositi sono interessanti, la loro realizzazione nel testo riesce fino ad un certo punto. Rimane sospesa, non affonda, né verso il completo orrore, né verso l’assoluzione totale. Insomma, un libro che vaga nel limbo di quelli possibilmente ben riusciti, ma non completamente realizzati.
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