Per la mole è abbastanza scorrevole. A volte mi sembra che l'autore abbia voluto allungarlo di proposito, alcuni dialoghi potevano essere evitati.
A metà ho interrotto.
Senza dubbio scritto benissimo, senza dubbio un capolavoro, ma troppo prolisso per me in questo momento.
Composto dopo un soggiorno di tre settimane in un sanatorio di Davos, in visita alla moglie ricoverata, il romanzo, concepito intenzionalmente come “una short story un po’ampia”, avrebbe dovuto essere, come racconta Mann stesso nella lezione tenuta nel 1939 all’università di Princeton, un dramma sul fascino della morte, analogo e parallelo a “Morte a Venezia”, ma trasferito su di un piano umoristico.
In realtà l’opera richiese a Mann dodici anni di lavoro, e il risultato è un capolavoro di quasi 700 pagine, un vero e proprio romanzo-mondo, di cui non è certo facile tracciare le coordinate.
Innanzitutto l’ambientazione, il Berghof, la cui posizione elevata consente di osservare “dall’alto”, da un luogo altro e distante i meccanismi del vivere, come se gli abitanti delle cosiddetta “pianura” appartenessero a una dimensione diversa del tempo e della vita, a un sistema di regole e convenzioni meccaniche e superficiali a cui i malati divengono progressivamente estranei e che vengono percepiti talora con un po’ di invidia, ma perlopiù con superiore distacco e condiscendenza.
In questa chiave si enuclea il tema amoroso, che per il protagonista Hans Castorp non può coincidere con il sentimentalismo delle “canzonette” di pianura, ma è consapevolezza dell’irraggiungibile, è attesa senza tempo, in un inestricabile binomio amore/malattia o meglio ancora amore /morte che autorizza anti convenzionalmente la voluttà, l’osservazione dei dettagli, l’interesse per il corpo in quanto fisicità e nella fattispecie fisicità compromessa dalla malattia. Concedersi all’amore, alla malattia, saper sfiorare la morte significa concedersi a ciò che è umano, Hans lo fa e ne riceve in cambio una sorta di formazione interiore, a differenza del cugino Joachim che, astenendosene in nome del suo onore di soldato e dell’etica della disciplina e del rigore, deciderà di tornare in pianura, aggravando così in modo irreversibile le sue condizioni di salute.
C’è poi il tema del tempo, che attraversa tutto il romanzo , con l’asimmetricità cronologica della narrazione: tutta la parte iniziale del romanzo è dedicata alle due prime settimane di Hans al Berghof, con la scansione dettagliata dei singoli giorni, poi, quando il giovane si trasforma da semplice ospite a paziente ( decisivo l’acquisto del termometro, una sorta di distintivo di appartenenza alla comunità dei malati!), si passa allo scorrere dei mesi, fino alla fatidica notte di Carnevale e al compimento del primo anno di soggiorno. Successivamente assistiamo non soltanto a una dilatazione del tempo, ma anche al suo confondersi, i giorni, i mesi, divengono indefiniti, persino le stagioni sono indistinguibili, con giornate soleggiate in inverno e nevicate in estate, e a noi lettori non è concesso sino alla fine capire quanto tempo sia effettivamente trascorso secondo il nostro modo un po’ banale di misurarlo. Il tempo è sospensione del tempo, è magia e incantamento che intrappola in una sfera di indefinitezza a cui non è facile sfuggire.
Intorno a Hans, nel microcosmo del Berghof, si muove una schiera di personaggi: i vari ospiti, colti ognuno nel proprio tratto distintivo, alcuni bizzarri, come la signora Stohr; la coppia di medici Behrens-Krakowski che incarnano un’autorità un po’ misteriosa, quasi kafkiana; la “femme fatale” Clavdia Chauchat, inafferrabile e sfuggente come un sogno. Ma su tutti spiccano le figure di Settembrini e Naphta, i mentori di Hans, alla luce dei cui discorsi avviene l’apprendistato alla vita del giovane “pupillo”, e che, dialetticamente contrapposti rappresentano l’uno l’ottimismo della ragione, l’altro il pessimismo metafisico.
La formazione di Hans avverrà proprio attraverso il tentativo di conciliare i due opposti, nella ricerca di una sintesi che conduca al ritrovamento di ciò che è umano, di ciò che è “vita”. Ma proprio quando Hans comincia a capire che cosa è necessario cercare, una sorta di follia collettiva pervade dapprima il Berghof, poi il mondo intero: allo scoppio della prima guerra mondiale, il giovane lascia il sanatorio e torna in pianura, e lì, nell’orrore del massacro dove tutto si perde e si confonde, lo abbandoniamo ad un destino incerto.
Sono proprio queste parole, estrapolate da un intervento universitario dello stesso Mann riportato al termine del testo, che descrivono alla perfezione il sanatorio Berghof, luogo dove si svolgono le vicende narrate, ma, al contempo, la natura stessa dell’opera.
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Perché sono proprio avviluppanti, dense fin quasi a divenire solide, l’atmosfera ed il respiro che accompagnano il lettore in questa infinita scalata a “La montagna incantata”. Opera di inestimabile valore storico ed artistico ma che, con le sue numerose asperità, mette in gran difficoltà l’incauto scalatore che decida di affrontare tale ascesa.
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Un lento approcciarsi alla cima, tra profondissime ed interminabili dissertazioni che abbracciano gli argomenti più disparati... biologia, chimica, astrologia, botanica, filosofia, massoneria, musica, spiritismo, in una continua contrapposizione tra posizioni umanistiche/razionalistiche ed idee marxiste sorte da uno strano binomio ebraico-gesuitico.
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Personaggi indimenticabili animano questo luogo sospeso nel tempo e nello spazio dove tutto si dilata fin quasi a fermarsi, lontano dallo scorrere della normalità, da quella vita di pianura che appare così confusa e distante. Ed è qui che le parole di Mann vengono ancora in aiuto, descrivendo alla perfezione il mondo nel quale ci si ritrova invischiati:”È una specie di surrogato della vita che in un tempo relativamente breve estrania del tutto i giovani dalla vita reale, attiva. Tutto vi è (o era) lussuoso, anche il concetto di tempo. Quel tipo di cure impegna sempre molti mesi, che spesso diventano anni.”.
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Un luogo distante quindi, dove tutto esiste e si muove con tempistiche scorrelate dal mondo esterno ma, nonostante questo isolamento, la realtà trova comunque il modo per prendere possesso sia degli ambienti che delle persone, trascinandoli, alla fine, a vivere una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo.
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È sempre elevatissima la qualità proposta da Thomas Mann; delizioso cibo per la mente, raffinato ma venato di sfumature tanto particolari da risultare a tratti difficili da gustare e digerire. Un libro vasto, disorientante, a tratti capace di incutere timore, altre volte in grado di abbagliare con scorci prossimi alla perfezione. Una lettura che esige tempo, attenzioni, concentrazione, energie, impegno e fatica.
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Personalmente, dovendo prelevare un testo dallo “scaffale Thomas Mann”, opterei per “I Buddenbrook”.
Un libro come questo , in piena emergenza Covid19 , andrebbe evitato per non cadere in una forma di autolesionismo .
E tuttavia la grandezza di Mann fa sì che il sanatorio Berghof di Davos , dove Hans Castorp sceglie di trascorrere tre settimane di riposo sia per la sua splendida ubicazione fra le montagne che per far compagnia al cugino Joachim Zimmsen che invece vi si trova da tempo per curarsi , dia vita ad un romanzo straordinario in tutti i sensi , uno stravagante e preciso spaccato di umanità con personaggi del tutto unici , dove non mancano momenti allegri e divertenti a dispetto dell’ambiente nel quale essi si trovano e tutti per la stessa grave ragione.
Il suddetto protagonista , un giovane ingegnere non particolarmente brillante nel suo lavoro , viene così accompagnato in un processo di trasformazione , una crescente forma di assuefazione all’ambiente nel quale si ritrova a vivere , che giorno dopo giorno lo avvolge in una sottile e penetrante malia che lo avvolge quasi in un bozzolo protettivo trasformandolo .
Notevoli gli altri ospiti , alcuni molto coloriti come Settembrini , dalle inequivocabili origini italiane ed il cui modesto aspetto stride con la sua vasta cultura umanistica , ed il suo altrettanto colto antagonista Naphta , ebreo convertito al gesuitismo , le interminabili discussioni fra i quali riempiono intere pagine che richiedono , a chi come il sottoscritto non possieda che una larvata conoscenza degli argomenti trattati , un’attenzione particolare .
Né si può fare a meno di menzionare la fascinosa e misteriosa madame Chauchat dagli occhi come “un lupo della steppa” , che tanta importanza avrà nella vita di Hans , né tantomeno il suo ultimo accompagnatore , il gaudente olandese di colore Peeperkorn, che conferisce un tono festaiolo ai capitoli che avviano verso le pagine conclusive .
Un volume di quasi 700 pagine da me letto in versione digitale che avvicenda un tono quasi salottiero , quando l’autore descrive la vita all’interno della struttura , ma che spazia soventemente in campi talvolta filosofici , altri scientifici , medici , botanici , addirittura spiritistici , e dove non mancano neppure interi e lunghi dialoghi scritti interamente in francese .
Insomma , un’opera monumentale , poderosa in tutti i sensi , espressa con lo stile unico di uno scrittore che ha lasciato un segno indelebile nella letteratura di tutti i tempi , che richiede , anzi impone , una notevole predisposizione ma che col suo epico finale , che basterebbe da solo a consigliarne la lettura , ripaga ampiamente chi la voglia affrontare .