Il titolo di questa recensione è la frase scritta su un volantino che un ignoto signore argentino ha consegnato a Naomi Klein e al suo compagno d'avventura, il regista Avi Lewis, giusto il giorno dell'arrivo dei due giornalisti attivisti canadesi a Buenos Aires.
L'autrice di "No Logo" (giusto in questi giorni in Italia per presentare questo film-documentario dal titolo "The Take - La presa") ha fatto una scelta coraggiosa: passare dalla comunicazione scritta - articoli, libri - alla comunicazione visiva, andando sui posti dove la scena si svolge, intervistando i protagonisti di queste storie, vivendo con loro gli stessi drammi (le manifestazioni di piazza, le cariche della polizia, l'odore dei lacrimogeni), per essere testimone di quanto sta accadendo nel mondo.
Perchè? Lo dice lei stessa: dopo il successo del suo libro, dopo decine di interviste in cui giornalisti "embedded" non facevano altro che ripeterle lo stesso ritornello, impedendole di parlare, un tarlo comunque ha cominciato a ronzare nel suo cervello.
Tutto sommato, l'obiezione posta da un certo giornalismo - per non parlare di politici, amministratori, economisti e quant'altro - liberista ha una sua ragione d'essere: i no global protestano, i noglobal sono "contro", i noglobal distruggono. Ma cosa propongono in cambio?
Già. Cosa propongono? Democrazia partecipativa dal basso, bilancio partecipato, municipalizzazione, gestione della cosa pubblica ... tutte belle parole, ma in sostanza?
E proprio mentre la Klein, ed i suoi più stretti collaboratori, riflettono sull'argomento ("ho scelto un periodo di silenzio", dice la voce fuori campo durante i primi fotogrammi del film), giunge dal sud america, dall'Argentina, una voce nuova.
"Occupare. Resistere. Produrre".
In Argentina, negli anni a cavallo tra la fine del millennio e l'inizio del nuovo, è crisi nera. Economica prima di tutto, ma con uno strascico sociale altamente distruttivo. Intere classi sociali, la piccola-medio borghesia, spazzata via, un impoverimento generale con quasi la metà della popolazione sotto il livello di povertà.
Anche in Italia giungono - poco! - le immagini delle piazze occupate, ma soprattutto delle banche assaltate. Perchè il governo ha disposto il blocco di tutti i conti correnti, nessuno può ritirare i suoi soldi dai suoi conti.
Nessuno? non proprio nessuno, solo la povera gente, l'uomo comune, l'operaio o l'impiegato, l'anziano pensionato con tutti i suoi risparmi congelati. I ricchi finanzieri, quelli i soldi se li son già portati via: in una sola notte - dice la Klein - un patrimonio equivalente all'intero PIL di una piccola nazione è stato spazzolato dalle grandi multinazionali che avevano investito in Argentina. E' la catastrofe.
Ma come si è arrivati a questa situazione? Eppure l'Argentina, con il Presidente Menem, era uno dei capisaldi delle politiche neoliberiste volute dal FMI, dalla Banca Mondiale, dal WTO.
Appunto!
Il primo passo è stato vendere tutto quello che era proprietà dello stato; tutto privatizzato, tutto in mano alle grandi multinazionali straniere.
Il secondo passo è stato quello di irrigidire la difesa della proprietà.
Il terzo, la deregulation in economia, nell'import-export, nel sistema creditizio e bancario.
(ma tutte queste cose non vi suonano familiari?)
Il risultato? Una forbice enorme tra chi (pochi) aveva i soldi (tanti) e chi (tanti, tantissimi) non li aveva. E ovviamente (ma gli "animal spirits" di smithiana memoria, non insegnano ancora niente?!), il "padrone" si guarda bene dal reinvestire, dall'ammodernare, dall'innovare ... prendi i soldi e scappa, e così è stato. Con la conseguenza del crollo NON di una fabbrica, ma dell'intero sistema di una nazione. Una nazione ricca, ricchissima di materie prime - e quindi potenzialmente in piena "corsa allo sviluppo" - ma completamente depauperata di tutto, inclusa la capacitè di far fronte al debito internazionale, contratto (guarda un po'!) giustappunto con il FMI e la Banca Mondiale.
La soluzione proposta dai "governi del mondo" ? vendere, vendere tutto per avere possibilità di acquisire nuovi finanziamenti (e quindi nuovi debiti) per pagare i debiti vecchi.
Geniale, no?
Ma il popolo non ci sta. E si organizza. Nasce questa nuova forma di lotta sociale, occupare le fabbriche, creare delle cooperative, tornare a produrre. "Occupare. Resistere. Produrre".
E' la nuova parola d'ordine, e le fabbriche - sono ormai nell'ordine delle centinaia - si autoorganizzano, con il pieno appoggio delle comunità locali e con la solidarietà delle municipalità.
Non c'entrano i partiti, non c'entrano i sindacati. E' solo il popolo, la gente comune, che si sostiene e si aiuta reciprocamente.
Il risultato? Industrie date per spacciate, con la fuga dei proprietari, dei capitali - e spesso la vendita sottobanco delle materie immagazzinate o anche delle apparecchiature - che tornano a fiorire, a produrre, qualcuna anche ad assumere nuovo personale, creare quindi posti di lavoro.
E ora che le cose ricominciano a girare per il verso giusto?
Ovviamente, i padroni tornano, rivogliono quello che era loro, si appellano alla giustizia, "ci sono le leggi", dicono, "quello che è nostro deve tornare a noi".
E la corte suprema dà loro ragione - sulla spinta delle ultime elezioni politiche dove candidato dato per vincente - ma guarda un po! - è quello stesso Menem scappato di notte a bordo di un elicottero dalla furia del popolo in rivolta.
E torna la polizia, e si chiudono le fabbriche, e si caricano i lavoratori; non giovani blackblock sfaciavetrine, ma madri di famiglia, uomini cinquantenni "che non hanno più dignità, perchè 'en home sienza travajo no es en hombre' " (sono le parole di una delle tante donne, mogli, madri, intervistate dalla Klein).
Ma il popolo non ci sta, ed inizia una lunga, estenuante lotta su più fronti: sul piano politico, è guerra senza frontiere contro il candidato alla presidenza Menem, che alla fine è costretto a rinunciare alla corsa; sul piano amministrativo, pressioni a tutto campo sul parlamento, sui sindaci, su tutte le organizzazioni governative; sul piano legislativo, una lunga serie di ricorsi a tutti i possibili livelli della giustizia argentina; sul piano sociale, manifestazioni, occupazioni, dimostrazioni, in piazza, davanti le fabbriche, davanti i palazzi di governo e di giustizia.
E alla fine, la spuntano. Le fabbriche tornano agli operai, autogestite in forma di cooperative. Creano accordi diretti tra le fabbriche ("io ti vendo la materia prima, tu me la lavori e me la rimandi per la produzione dei miei trattori"), si occupano anche degli aspetti umanitari ("le piastrelle che produciamo sono gratis per ospedali e scuole"), esportano finanche il modello stesso di autogestione: in alcune municipalità esistono scuole, ambulatori medici, biblioteche, altri servizi.
Tutti creati direttamente dal popolo, tutti autogestiti, tutti al servizio del cittadino.
Credete che questa sia una mera questione destra/sinistra?
No. Come ci informa alla fine del film (dibattito in sala, anche con la partecipazione di Francesco Caruso - disobbedienti - e Maurizio Acerbo - segretario regionale RC ) Raul Mantovani, di Rifondazione Comunista, anche un successore di Kirchner (lo sfidante di Menem che vinse per il ritiro di questi), Da Silva, espressione della cosiddetta "sinistra riformista" (tanto acclamata all'epoca dal ns "baffetto" D'Alema) il primo atto ufficiale che fece fu quello di sottoscrivere un nuovo accordo con il FMI. Tutto come prima, insomma. E per il popolo argentino, i guai non sono ancora finiti.
Loro ci sono già, là. Perché mai dovremmo arrivarci anche noi?
...Continuaho iniziato a vederlo. mica il libro ho iniziato