Sul muro della cucina ho appeso un planisfero che misura due metri per uno e mezzo. Ho una buona memoria per le parole e una scarsa memoria visiva. Per questa ragione, devo avere sempre sott'occhio il mondo anche se ridotto in scala e sconnesso in lacerti colorati. Quando leggo autori giapponesi mi soffermo con lo sguardo sulla sagoma del loro Paese, una stretta macchia arancione tutta sbrindellata, scagliata nell'oceano Pacifico. Ma davvero è un'isola? Il planisfero sembrerebbe confermarlo, ma spesso gli autori giapponesi dimenticano che c'è il mare e lo dimentico anch'io leggendo di montagne, di giardini, di neve e pioggia.
Per Iosif Brodskij Akutagawa era scrittore amatissimo che lo accompagnava nei suoi viaggi a Venezia dove, si sa, il mare è di casa. Ma il giapponese tralasciò onde e distese infinite per narrare di case e templi in rovina, di principesse destinate a lenta, solitaria decadenza, di magia e di spettri, di vili samurai dal naso rosso il cui unico scopo nella vita è togliersi del tutto la voglia del porridge di patate dolci. E poi di un pittore dall'animo gretto che sacrifica ciò che ama per ritrarre l'inferno e dell'inferno stesso, l'inferno buddista, simile a quello affrescato nelle chiese cattoliche con il fuoco eterno e i mostri che torturano i dannati.
Akutagawa era colto, aveva letto la migliore letteratura occidentale e scriveva come in occidente, in modo cristallino, ma pensava come un orientale e le sue parole emergono dal vuoto, dalle nubi e dalle nebbie come gli aironi, le montagne, i samurai, le scimmie dipinti nei paraventi di carta di riso. E dimentica (o vuole dimenticare) l'oceano perciò mi ritorna il dubbio: il Giappone è un'isola?
Sento un piccolo brivido corrermi lungo la schiena nel leggere questi racconti così vicini e così lontani da me nello stesso tempo. Forse è il segno, come affermava Nabokov, che si tratta di arte vera, forse oggi fa troppo freddo come nella Kyoto decadente sferzata dalla pioggia , sotto il Rashomon con le sue enormi colonne dalla vernice rossa scrostata su una delle quali ha trovato riparo una locusta.
Fa un caldo boia, è una giornata di fine Luglio. Leggo a balcone spalancato e di fianco un ventilatore il cui rumore ricorda quello di una vecchia stufetta elettrica. Mi chiedo perchè generando sensazioni termiche opposte debbano produrre lo stesso rumore, è un'ingiustizia sinestetica.
Scrivo questo perchè è la seconda volta che leggo gli scritti di Akutagawa. La prima volta era d'inverno in un edizione intitolata "La ruota dentata" pubblicata da SE edizioni.
Anche questa raccolta di racconti pubblicata da Einaudi che porta il titolo di Rashomon contiene al suo interno il racconto più sostanzioso "La ruota dentata".
Diciamolo subito, questo di Akatugawa non è un libro estetivo da leggere sotto l'ombrellone. Sono racconti in cui la vita combatte tra lampi di bellezza e la certezza della miseria a cui l'uomo è sottoposto.
Nell'arco delle mie due letture, il mio racconto preferito resta "la ruota dentata" perchè è il tentativo di Akutagawa di descrivere il suo stato psicologico personale e non la sua visione della vita in generale. Purtroppo Akutagawa non è riuscito a superare la sua personale follia, e sono sicuro che sono in molti quelli ad avere avuto un'esperienza simile: continue associazioni illogiche, vedere corrispondenze dove non esiste altro che caso, assistere al caso per quello che è scevro di logica, incomprensibile nella consapevolezza che la nostra mente può ben poco rispetto al tutto.
Mi dispiace per il destino di Akutagawa ma al tempo stesso mi piacerebbe conoscere o leggere dei superstiti, di chi è riuscito a superare la sua personale follia e con quale spirito poi ha affrontato la vita.
Libro da leggere ma non adatto a tutti palati, sapore amaro.