Ha senso riprodurre l'arte?

Questo saggio, molto breve e famoso ma molto "denso", scritto dal filosofo Walter Benjamin nel 1935 tratta l'impatto della riproducibilità "tecnica" sull'opera d'arte, argomento né facile né immediato.

I quadri e le sculture sono sempre stati riprodotti manualmente e le opere musicali altro non sono che una continua ripetizione/riproduzione dell'opera stessa. Benjamin però no, non ci parla di questo tipo di riproduzione; l'oggetto del saggio è la riproduzione "tecnica" delle opere d’arte, quale ad esempio la litografia, la stampa, la scrittura, la fotografia. E il cinema.

E giù definizioni, tanto belle quanto complesse e noiose.

"L'elemento fondamentale dell'opera d'arte è l’hic et nunc, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova”.

"Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può venirsi a trovare possono lasciare intatta la consistenza dell'opera d'arte, ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc... Ciò che viene meno è quanto può essere riassunto con la nozione di "aura""


Tralascio volutamente le definizioni di valore "cultuale" e di valore “espositivo”, veramente poco interessanti. E tralascio pure l'idea dell'arte come prodotto delle economie capitalistico, credo concetto decisamente datato. Cerco invece di tradurre e sintetizzare le cose dette nel libro: una copia di un quadro di Picasso sullo screen saver del nostro PC riduce il valore, la magia e l'unicità del quadro stesso. Il quadro, ora non più unico, non ha piu la sua "aura", è però fruibile da parte delle grandi masse, ossia ne è stata migliorata la diffusione.

Non so se sia vero che l'aura di queste opere ce la siamo giocata (certe riproduzioni di opere son migliori degli originali, alla faccia dell'Aura Magica...), però è un fatto che la ricerca artistica nel novecento sia andata proprio nella direzione della serializzazione e della riproduzione delle opere, con linguaggi propri. Un esempio possono essere l'astrattismo, l’espressionismo e, perché no, la Pop art.

Ora la domanda è: ci volevano una quarantina di pagine per esprimere questo concetto?

Onestamente il libro mi è parso un pochino datato, di difficile digestione (l'aura è peggio di cinque spicchi d'aglio) e sollevante problemi che non vedo. Forse letto nel 1935 poteva avere qualche cosa da dire, ma oggi mi pare un buon esempio di onanismo intellettuale.

Jan 12, 2016, 3:00 PM

In un testo breve, una quarantina di pagine, Benjamin cerca di immaginare quale sia il destino (il futuro) dell’arte dopo l’irruzione della fotografia e del cinema, e dopo l’affermarsi delle avanguardie.
(Prima l’uovo o la gallina? Prima la mutazione delle tecniche o prima l’esautorazione dei linguaggi e dei valori tradizionali? O entrambi si fecondano in un movimento quasi incestuoso?)

L’aura, l’aura, la perdita dell’aura e della sacralità dell’arte.
Questo concetto, checchè ne dica Cacciari nel suo saggio introduttivo - due grandissime palle all’ennesima potenza, grande sfoggio di saggezza filosofica – non è affatto una semplificazione, non è una banalizzazione del pensiero di Benjamin.
E’ il nocciolo fondante e premonitore.
Poco mi interessa l’interpretazione che ne fa Cacciari, infilando dentro “Il produttore malinconico”( testo/introduzione che ingombra assai e rende sì, il saggio di Benjamin una cosa piccola piccola), tutti i filosofi dichilièmuort fino ad arrivare a Baudelaire e allo spleen e alla comparazione dell’opera omnia del Nostro, rintracciando le contraddizioni legate all’ adesione al materialismo dialettico fino a dedurne quasi un pensiero nichilista, e la malinconia, soprattutto lì dove Benjamin critica i futuristi (asserviti alla re-azione) ed esalta i dada.
Ugualmente, poco mi importa dell’apparato delle note, che rallentano la lettura in modo esasperante, ad ogni mezza parola si rimanda alla nota che compara la mezza parola con la parola variata del foglio 1 versione D e a tutti i fogli e versioni e a tutti i dattiloscritti ritrovati, fronte retro, fronte avanti, ci mancano solo quelli dove erano appuntati l’indirizzo del fornaio e della maitresse.
(Questa edizione è un ottimo pasto - di lunga e difficile digestione- per gli studenti di filosofia.)
Nonostante tutto l’orpello filologico e filosofico che precede e conclude il saggio di Benjamin, ho trovato dei segmenti molto interessanti .
Sul rapporto tra artista e pubblico, ad esempio.
Riflettendo sul cinema, paragona l’operatore al chirurgo, che pone la mano sul corpo del paziente, al contrario del pittore/mago, che esercita un potere “a distanza”.
“Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al proprio flusso di associazioni. Di fronte all’immagine cinematografica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è già modificata.”
E ancora:
“Così il cinegiornale fornisce ad esempio a ciascuno la possibilità di trasformarsi da passante in comparsa cinematografica.
Ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di venir filmato.”
Ho pensato chiossape quale sarebbe stata l’osservazione di Benjamin di fronte al nuovo “cinema”, quello dei video amatoriali che inondano You Tube, o al mi selfizzo, dunque sono, ripetuto infinite volte.
Il tubo dove il chiunque contemporaneo è regista del mondo e di se stesso.

Jan 5, 2015, 6:56 AM

Letto ai tempi dell'Università, L'opera d'arte nell'epoca delle sua riproducibilità tecnica è uno di quei libri spartiacque: c'è un prima e un dopo Walter Benjamin nell'approciarsi all'arte, alla letteratura, al mondo direi.
Un testo sacro, almeno per me.

Feb 13, 2008, 7:34 PM