Potrei dire che in questo libro c'è tutto.
La trama avvincente, i personaggi tosti e veri, la durezza del vivere antico, la brama di sopravvivere, la protervia del comando e del potere, la sensualità del corpo e la bestialità del sesso. Ancora, di più: c'è il suono del parlare greco, il fascino della magia, la paura del buio e delle voci che lo popolano, il timore delle streghe e delle magàre, la cattiveria del paese, il profumo delle pietre e delle fiumare, l'appiccicoso sentore di resina degli alberi, il ferroso sapore del sangue e la dolce benedizione del vino che cancella per un attimo ogni dolore.
C'è la Calabria, vera e fiera, di tre secoli fa e la storia di una coppia di giovani profughi da Creta che arrivano in Aspromonte, e lì generano una figlia forte e coraggiosa, che a sua volta genera un unico, amato figlio dal nome musicale, Nino.
A tutti loro accadranno tante cose, magiche e no, sotto lo sguardo solo apparentemente distratto della Natura e del Soprannaturale.
Non vi dirò altro, di quello che c'è.
Preferisco allora dire cosa non c'è, cosa manca.
Non ci troverete autocompiacimento anche se è scritto benissimo. Non vi imbatterete in termini leziosi o in eccessive ostentazioni nell'uso del dialetto, dosato alla perfezione. Non dovrete affrontare una trama inutilmente complessa, anche se gli sviluppi della storia vi sorprenderanno ad ogni svolta d'angolo. Non leggerete di voli pindarici, anche se c'è tanta poesia.
Ecco, tutto questo non ci sarà. Ed è ovviamente un bene, secondo me.
Perché questo è un libro vero.