Da qualche settimana cerco di inserire delle novità, attingendo dalle proposte del settimanale “Robinson” del Gruppo Repubblica. La prima di quest’anno viene da uno scrittore del “nord”, anche se in realtà non è scandinavo ma olandese. E che già ho seguito in altre e brillanti prove. Che Nooteboom è poliedrico ed affascinante, sempre piacevolmente da leggere, e sempre portatore di qualche messaggio che arriva dentro, nonostante o forse anche perché vicino ai novanta anni. Ma sulla sua storia personale non ritorno, che già ne dissi. Rammento solo che, oltre che narratore, è stato un grande viaggiatore, e spesso ha utilizzato la poesia per esprimersi. Come in questo caso.
Certo, devo anche sottolineare la mia difficoltà, non essendo un attento lettore di versi, ed avendo a volte una sensazione di respingimento che non so spiegare. Questa breve raccolta di versi onirici e rimandanti ad altro, anche a situazioni personali di cui non so, mi ha lasciato da un lato spiazzato, ma dall’altro mi sono lasciato andare alle parole, alla loro concatenazione, ai piccoli messaggi (personali) che trapelano da alcune righe sparse. Con un risultato finale di sicuro ed inaspettato gradimento.
Non tragga in inganno il sottotitolo (che sul titolo torneremo poi). Non si tratta di una raccolta di versi tesa a sottolineare il momento in cui viviamo. Si tratta di poesia che, incidentalmente, viene scritta in un periodo che nel mondo è caratterizzato dalla presenza costante del Covid-19. E che Cees trascorre prima nel suo rifugio di Minorca, tra le sue amate piante del giardino, poi nella quarantena passata a Hofgut Missen, in Germania, a nord del lago di Costanza.
Anche il titolo non sottolinea congedi, non fa riferimento ad un altro suo libro che prima o poi troverò voglia di leggere (“Tumbas. Tombe di poeti e pensatori”), ma, come sottolinea l’ottima postfazione di Andrea Bajani, è un muro, ultimo baluardo di un qualcosa al di là del quale c’è, forse, l’inesprimibile. Queste sono poesie, 33 esattamente (come i canti della “Divina Commedia”), sonetti espressi in quartine, con un ultimo verso volante e solitario. Divagazioni mentali sulle cose che sono e su quelle che noi comprendiamo siano (o possano essere).
C’è un inizio, in cui il poeta si pone davanti alla natura, ne sottolinea mutamenti e rimanenze. Per chi ne sa di lui, si notano i suoi cactus amatissimi del suo giardino di Minora, i fichi (ah, quanto ne vorrei), ma anche il passaggio delle oche del vicino. Passano nomi, suoni, rumori, silenzi, come se fosse pittura e musica, più che parola dal corto passo. L’uomo, evolvendosi caduco, rimane immobile nella sua corta esistenza, mentre la natura continua a muoversi in modo costante e senza poter essere fermata.
E le 33 poesie sono a loro volta divise in tre parti, quasi che Cees volesse raccontarci del presente, volesse ricordarci visioni del passato, e cercasse una comprensione per le aspettative del futuro. Ecco che ci rimanda anche della guerra, delle sofferenze patite, del non sempre risolto rapporto con il padre (anche per la di lui precoce morte).
Ma poi forti e per me meglio assonanti, arrivano le quartine dell’ultima parte del testo, dove il poeta fa trasparire il vagabondare che ha caratterizzato tutta la sua vita. Tante le strade percorse, tante le esperienze accumulate, forse a tutto ciò agganciata un’idea di saggezza, quella che ognuno pensa di portarsi appreso dopo aver visto, fatto e vissuto tante cose. E pur tuttavia, nella vita sua (e di noi, con lui mortali) non può che rimanere solitudine, confusione dubbi. Vede amici e conoscenti sparire ad uno ad uno (“e tutti mi hanno detto addio … sono scomparsi come spettri, ognuno solo con sé stesso” pagina 67).
Sono versi pieni di tante cose: solitudine, dubbi, disperazione, abbondoni e incomprensioni. Pur tuttavia, a me, alla fine, danno anche un senso diverso. Un senso, comunque, di una persona che ha fatto tanto, che ha accumulato tanto, e che chiosando come l’ultimo verso che riporto, mi dice: sì, ho vissuto.
Una lettura, amici miei, che va fatte diverse volte, prima di poterla lasciare.
“Quante vite stanno in una vita?” (39)
“Tante strade / ho percorso, sempre in cerca di qualcosa / che doveva trovarsi più lontano.” (75)