Constatare di esserlo stato, felice, di averne accarezzato l'idea, seppur per una breve parentesi, è finalmente un punto di arrivo. E' la fermata che segna una ripartenza, la dolorosa ricerca di un altrove, con la sola compagnia della fame.

La fame riempie le giornate genovesi di Giovanni, molto più degli amici di bevute, più dell'amore fugace con Maria. Fame di uno squattrinato perdigiorno nei primi anni '50, tra caffè, camere d'albergo, prostitute e osterie, che oggi fanno credito e domani non più. Fame come metafora, come smania di vivere, di prendersi tutto, dalle botte che lasciano i segni sul viso, il colore del cielo negli occhi, alle carezze sulla pelle e sull'anima. Sono le giornate, tra bohème ed esistenzialismo, di un ventitreenne, che nell'ozio delle giornate d'inizio estate, nell'odore di marcio dei vicoli, il sudore, la brezza che sale dal mare, trova il senso dove un senso, in fin dei conti, non c'è.
Sa un po' di giovane Hemingway, questo bel romanzo di esordio di Arpino, molto Sartre degli “Anni della ragione”, un pizzico di straniamento alla Camus, e quel misto di pessimismo e speranza, di bellezza e tristezza che abbiamo amato con struggimento in Pavese.

Pubblicato la prima volta nei gettoni Einaudi, per convinta decisione di Vittorini, con qualche riserva, pare, da parte di Calvino.
Lo stile scivola leggero, imbastito da una scrittura allusiva e a tratti contemplativa. Qua e là un po' di maniera, ma in linea con il canone einaudiano del tempo.

Lode a Fabio Stassi e minimumfax per questa riedizione.

Jun 2, 2022, 10:21 AM
Il vino  

"Il vino" di Piero Ciampi è l'associazione musicale naturale per questo libro speciale. Non è l'unica (da "Il porto di Livorno" sino all'incredibile di "Io e te, Maria") al punto che viene da chiedersi se siano proprio tutte casuali; ma i tempi non coincidono e quindi probabilmente sì.
"Mario sapeva che chi beve mentre piove è amico di tutti, mentre chi beve solo quando ha sete non è amico nemmeno del bicchiere che ha in mano.”
Coincidenze a parte Arpino produce un romanzo d'esordio (scritto in soli venti giorni, nel 1952, a ventitrè anni) che reinterpreta il realismo. Il suo è un racconto asciutto nelle parole e squillante nei sentimenti, contorto nella ricerca di una felicità contorta, di un amore inspiegato che reca la felicità, di un avvenire che riduce ogni cosa a sudicia e vecchia. Ma il suo non è uno sguardo sulla realtà, non è sguardo distaccato né compreso: lui è lo sguardo che fa vivere ciò che osserva, anche quando l'osservato è lui stesso.
“Camminando guardavo oltre le soglie dei negozi e ogni cosa mi pareva sudicia e vecchia. I proprietari dei negozi pulivano i vetri ma quello era un lavoro inutile. Avrei voluto vedere qualcosa di veramente pulito e nuovo, in ordine, non un uomo, ma almeno una cosa, invece tutto era vecchio e sudicio. Era una vecchia e sporca città con vecchia e sporca gente che le si muoveva dentro come insetti nel legno marcio di un tronco.”
Eppure lo sguardo d'amore merita di essere vissuto, nel suo presente - ancora una volta Ciampi con "Io e te Maria" (Gesù Gesù, quanto amore/Gesù Gesù, quanto bene/Gesù Gesù, l'amore è andato/Gesù Gesù, io sono uno sbandato senza lei).
“...chi se ne infischia dell’avvenire, questo l’ho sempre detto, bene, diciamolo un’altra volta, dillo ancora, quello che sono e che ho sempre detto e dovuto fare e potrò fare se lo vorrò e se gli altri lo capiranno e se non capiranno non importa, quello che ho amato e visto è l’avvenire. E le rondini il sonno gli amici i soldi la gente che capirà o non capirà e Maria, Maria che è stata, anche questo è l’avvenire.”

Dec 22, 2022, 11:25 PM
"Ero stato un mucchio di vite cominciate e lasciate lì una per una come vecchi fazzoletti per noia stupidaggine irritazione. Ora quelle vite dovevano servirmi. Non erano state vite inutili, lo sapevo, erano state come finestre di una casa, finestre a cui ti siedi per vedere molti paesaggi diversi, con gente e alberi. Ma una casa ha muri e porte e scale e tetti e luoghi dove sei protetto. Io avevo avuto solo finestre, non ero stato un buon muratore. Dovevo fare qualcosa, adesso, cominciare a fare i muri. Le finestre non sarebbero state dimenticate. Anzi. Erano lì per aiutarmi, erano i fatti di prima, i fatti non si cancellano"

La scrittura riecheggia quella di Pavese, una scrittura apparentemente svagata attraversata da lampi di dolente consapevolezza, e che racconta anime e paesaggi attingendo allo stesso vocabolario quasi fossero la stessa cosa e le une potessero influenzare gli altri e viceversa (ma senza la grazia un poco snob di P.). I compagni dell'alter-ego di Arpino (che, pare, avesse in realtà poco o nulla a che spartire con lui), invece, mi hanno riportato alla mente i diseredati di Steinbeck (quelli di "Pian della Tortilla" e, più ancora, di "Vicolo Cannery") con una nota più forte di disperazione per il fatto che questi, pur chiamandosi amici, sono, a ben guardare, accomunati soltanto dall'esistenza balorda (ai limiti della sopravvivenza) che conducono; poco solidali gli uni con gli altri, essi prendono strade diverse senza troppo dispiacersene se i casi della vita li dividono (in fondo ciascuno di essi è, per gli altri, una zavorra che li tiene inchiodati alla propria piccolezza, nonché uno specchio che ne riflette le bruttezze e nel quale non deve essere piacevole guardarsi).
La sostanza del narrare è un vagabondaggio sentimentale costellato di bevute, tormentato dalla fame, portato avanti in una nebbia che avvolge il cuore e la mente. Come nulla il Giovanni di Arpino passa dall'euforia (spesso annaffiata di alcool), alla serenità (non è poca cosa saper godere di un pomeriggio trascorso nell'erba, al sole, a mangiare pane e ciliegie), all'angoscia (materiale perchè mancano - sempre - i soldi, interiore perché manca la voglia di lavorare, faticare). La stessa felicità, in fondo, ha due volti, ed è una cosa piccola, fragile, che è cosi facile guastare; felice Giovanni lo è soltanto quando riesce a dimenticare i propri guai, o quando si accorge/ricorda (un'ebbrezza) di essere libero e senza legami, libero di fare, restare, andare, libero anche di andare alla deriva senza che ci sia qualcuno a tenerlo ancorato a terra, che gli impedisca di cadere, di perdersi.
Ad un certo punto del racconto pare che qualcuno sia in grado di salvarlo; una donna, Maria, e l'amore per lei (totale ed immediato, quasi frutto di una predestinazione), sembrano riuscire a dare al ragazzo la voglia di restare (il protagonsita dirà: Maria è un "posto dove devo arrivare. Fermarmi e basta"), costruire qualcosa che duri, onorare una promessa di "protezione tempo fedeltà". Ed invece, in un attimo, tutto precipita: esiliato da quel luogo nel quale non è ancora arrivato, Giovanni cade di nuovo nella violenza, nello schifo, nel buio. Randagio e reduce dalla vita, non può far altro che ricominciare ancora, resistere, continuare, amaro e crudele per non farsi prendere dalla nostalgia che gli renderebbe impossibile il partire per una nuova città (o il tornare a casa, che è poi la stessa cosa quando si è lontani da troppo tempo), verso un nuovo orizzonte.

Apr 25, 2019, 9:54 AM