Se Mary Shelley avesse avuto un buon editore...

... questo romanzo sarebbe più corto di almeno cento pagine. In effetti non penso di aver mai letto un libro più imperfetto: rindondante fino allo sfinimento, turgido ed enfatico (soprattutto nei dialoghi), appesantito da apostrofi che suonano fin troppo retoriche al nostro orecchio di inizio millennio.
Eppure "L'ultimo uomo" è un capolavoro, lo è perché è la testimonianza fedele di una civiltà di cui ci illudiamo di essere gli eredi. Questo romanzo parla della fine dell'umanità, e ciò è un pretesto per innalzare ad essa un immenso e struggente monumento d'amore. La razza umana si estigue, ma la sua civiltà sopravvive nel comportamento, nel cuore e nella memoria dell'ultimo uomo, che pur nell'orrore più profondo della notte più buia non abdica mai alla sua umanità. Se penso ad opere come "Cecità" di Saramago o "La Strada" di McCarthy, in cui l'apocalisse dell'uomo si manifesta con un lento ed inesorabile spofondare nella barbarie, comprendo l'abisso che ci separa dal mondo romantico. Bisogna avere un'immensa fiducia nella solidità dei valori del proprio mondo per essere persuasi che essi sopravviveranno alla malattia, al terrore e alla morte. Probabilmente ciò avviene perché Shelley la sua apocalisse l'ha solo sognata, per questo può darcene un resoconto di così straziante bellezza. Noi che invece l'abbiamo già vissuta, e che siamo già dei sopravvissuti all'apocalisse, diamo di essa un resoconto più sordido, anche se forse molto più realistico.
Una visione ingenua, quindi, quella di Mary Shelley, certamente. Oggi un qualsiasi narratorucolo della fantascienza più commerciale sa che le prime vittime dell'orrore sono la bellezza e la pietà. Eppure che nostalgia questo sogno che si sogna con un groppo in gola, in cui le passioni sono disciplinate da un modello di grandezza, bontà, simpatia, bellezza, amore. Un'umanità che di certo non ha mai camminato sulla terra, ma il cui sogno è stato vissuto nel cuore di alcune persone, in un certo momento, brevissimo, della storia della nostra cultura.

Jan 19, 2012, 1:44 PM

La critica del tempo definì le storie di Mary Shelley poco coinvolgenti per i lettori, in quanto tragedie universali: il lettore finisce per sentirsi estraneo alle vicende narrate, non riesce a farne qualcosa di suo, stenta ad immaginare che una tragedia di tale portata possa realmente accadere. Sono d'accordo solo in parte. Più che la verosimiglianza del racconto, secondo me, il problema è la verosimiglianza dei personaggi. Il libro non coinvolge perchè tutta la storia è inquadrata dall'alto, dà una visuale troppo ampia e distante e solo raramente Shelley si avvicina ai singoli personaggi e alle loro personali vicende: il racconto non si concentra mai abbastanza su una scena tanto da poterla immaginare, è come una storia narrata per sommi capi, quasi che l'autrice si fosse limitata a tracciarne una scaletta senza però svilupparla.
Peccato, perchè alcune ambientazioni sono molto belle: le rovine di Costantinopoli, ad esempio. E la lettera di Perdita, in particolare, e i suoi pensieri segreti, esprimono concetti profondi e importanti.
Ma sono tutte scene sospese tra personaggi forse un po' troppo perfetti e poco realistici, a cominciare dal quasi "bestiale" Lionel dell'inizio, che si trasforma addirittura in un letterato, il che è inverosimile.

Aug 12, 2008, 1:44 PM

Non è male questo libro. Forse il suo unico problema è la lunghezza. La storia e relativa atmosfera apocalittica potevano essere concentrati in un minor numero di pagine.
Si conferma il talento della Shelley per la letteratura archetipica. O meglio una letteratura capace di far leva sull'inconscio collettivo. Il libro che crea l'archetipo.

Dec 18, 2007, 2:33 PM