Disse che stava scrivendo una mandria di ricordi. In certi giorni aveva paura che scappassero dal recinto.

Jun 24, 2015, 8:48 PM

Biografia di un albero non è una semplice storia raccontata in un libro, ma una dimostrazione concreta che tutt’oggi da qualche parte nel mondo, ci sia un impegno alla valorizzazione, diffusione ed esportazione della cultura. Ciò avviene non in chiave prettamente commerciale e generalizzante di un prodotto globalizzato, bensì rimarcando la peculiarità locale.
Appena si apre il libro si scopre che la sua traduzione e diffusione in Italia rientra in un programma ministeriale argentino volto a diffondere la cultura nazionale. Questa semplice nota crea un’aspettativa di qualità che ovviamente la lettura del testo non tradisce.
Eccoci quindi alla scoperta piacevole di un nuovo e giovane autore della provincia di Buenos Aires, Hernán Ronsino, alle prese con la narrazione di una storia breve nella collocazione temporale (tre giorni), ma capace di esplodere in una miriade di ricordi del passato. L’occasione spiacevole della morte di un amico di famiglia riporta il protagonista, Federico Souza, nel paese d’origine. Qui si fermerà tre giorni tra fotogrammi di vita passata e presente in una malinconica divisione tra chi è rimasto e chi (il protagonista) ha ricostruito la propria vita lontano.
Il ritorno di Souza nel paese non fa che sottolineare come l’evoluzione sia avvenuta solo per chi è emigrato: triste realtà di un mondo fatto di centri e periferie ad ogni latitudine. Dal rapporto tra Souza e il Vecchio (suo padre) e tra Souza e tutti gli altri personaggi emerge proprio la dimensione della distanza: questa non è mai ridotta, ma anzi si amplifica nel passaggio dal ricordo al presente. “Ogni pezzo di muro di questa città si porta addosso, come una pelle, le tracce della mia storia” frase ripetuta diverse volte e che semplifica il salto nel passato rappresentato dal ritorno al paese di origini. “Se la scrittura deforma le cose, si suppone che ci sia qualcosa di originale che le parole dovrebbero copiare fedelmente” dice un amico del Vecchio ed è come se si stesse rimarcando quel “verismo” che collega passato e presente con quest’ultimo deformato dalla partenza (evoluzione), ma che di fondo è sempre lo stesso così come un albero che cresce e cambia le proprie foglie, ma che di fondo è sempre lo stesso.

Mar 23, 2017, 7:59 AM
Viaggi deludenti - 01 mag 22

Ecco che torniamo ancora in Sud America, con una lettura del mondo argentino. Un mondo per me sempre legato a Borges ed ai suoi epigoni, fino a Cortazar e Manuel Puig. Per cui con interesse mi sono immerso nella lettura di un autore giovane, e soprattutto poco noto, e non solo a me.
Rilevo subito, oltre la difficoltà della scrittura, il fatto che questo libro è il terzo volume di una trilogia (chiamata in patria la “Trilogia della pampa”), dove prima di questo libro Ronsino pubblica “La descomposición” e “Glaxo”. Ci sono spesso rimandi e richiami, tanto che il libro a volte sembra perdersi in ricordi di altro. Rilevo poi in seconda battuta che il titolo italiano che si riferisce ad un albero (presenza latente, anche in immagini, ripetute identiche ad ogni capitolo) è leggermente (ironia) diverso dallo spagnolo originario che, come riportato, si chiama “Lumbre” (che ha a che vedere con il fuoco e con il focolare).
Attraverso la trilogia, Ronsino ripensa alle proprie radici, alla propria storia, trasponendosi nell’identità del poeta Federico Souza, facendolo leggermente più anziano (il poeta ha 53 anni, mentre lo scrittore, quando pone mano al romanzo ne ha 38). Ma costruendogli intorno una cosmogonia simile alla propria. A cominciare dal luogo natio, la cittadina di Chivilcoy, posta circa 180 km a nord di Buenos Aires, e raggiungibile dalla capitale in un paio di ore.
Souza vive a Baires, nel quartiere di San Telmo (che ben ricordo, un po’ degradato, ma con un mercatino molto carino nella piazza principale), insieme ad una fotografa canadese, Helene, con cui cerca di parlare per tutto il romanzo, senza riuscirci. Perché Federico torna a Chivilcoy richiamato dal padre, conosciuto da tutti come il Vecchio, inseguito alla morte di un lor conoscente, Fernando Lerù, detto “Pajarito” da quando, giovane, la sua testa fu paragonata ad un uccellino.
Lerù ha lasciato a Federico, in eredità, una vacca, anche se non è ben chiaro se la stessa sia mai stata del Pajarito, o fu da questi rubata al Negrito Soza. Fatto sta che Federico arriva a Chivilcoy, va a vivere dal padre, e lì passa tre giorni di rimembranze, dal 2 al 4 marzo 2002. Dato importante, questo dei giorni, perché, come bolle di memoria, si dipartono da quelli ricordi e avvenimenti di tanti strani personaggi che hanno popolato la cittadina. Mescolando, quindi, realtà e finzione.
Abbiamo realtà nel ricordo dell’uccisione del poeta Carlos Ortiz, avvenuta il 3 marzo 1910, per mano di sicari al soldo del boss locale, che volevano impedire riunioni di politici ed intellettuali, al fine di spingere il boss alle massime cariche cittadine. Peccato ci scappi il morto. E da quel morto, Federico ricorda storie narrate dal padre, come la realizzazione di un film, con attori locali, dedicato alla memoria di Ortiz. Film realmente girato colà, nel 1946, per la regia di Ignacio Tankel (Tankelevich il vero nome) e sceneggiato dal locale insegnante di lettere, il poi ben noto Julio Cortázar (nel libro divenuto Julio Denis). E dal film riappaiono le strane figure della professoressa Ravignani e del bidello Elvio Mangusi, di cui vi lascio leggere le storie.
Poi vengono altre bolle. la stirpe degli Areco, i poveri della città, di cui non si conosce il vero nome, e tutti vengono chiamati con il cognome, e dove Federico si fa amico del più giovane, e con lui si immerge nelle gare di nuoto, dove non vinceranno mai, ma saranno sodali, per poi perdersi e non trovarsi, tanto che, incontrandosi, non si riconoscono. O quella del ciclista Carlos Luna che fece il giro della città per cinque giorni senza mai scendere dalla bici, immortalandosi in un record singolare quanto bistrattato. Altri se ne incontrano, anche per un’intervista che il nostro registra per la tv locale, e che gli dà ulteriore visibilità. Che gli permette di confrontarsi con sé stesso, ma anche con suo padre, le sue bugie, le sue storie strane.
Un dato caratteristico ed emblematico è un documentario che vede in televisione, da cui riprende la frase che riporto, e che ogni trenta- quaranta pagine, riporta di nuovo e di nuovo. Questa dà una delle cifre del racconto. L’altra, ed è la più difficile, è la forte localizzazione del testo. Il romanzo è molto argentino, pieno di rimandi anche alla storia patria ed alla letteratura (i libri di Sarmiento, il colonnello Borges, Belgrano, Urquiza, e tanti altri), che a me rimandano a strade locali, ma che, probabilmente hanno altro impatto verso i sudamericani.
Alla fine, troppo interno risulta il tessuto del romanzo. Non vola, e soprattutto, non prende e porta in giro per le memorie. Non mi ci sono ritrovato, impiegando molta fatica a girare le pur non molte pagine. Speriamo di leggere di meglio.
“Ogni pezzo di muro di questa città si porta addosso, come una pelle, le tracce della mia storia.” (frasi citata più volte, 13 la prima, 143 l’ultima)

May 1, 2022, 8:30 AM