Con grande piacere, un sabato pomeriggio di febbraio, ho partecipato a uno dei parlamenti, cioè a una delle riunioni del gruppo romano che così si chiama (con la p minuscola) quando si riunisce, per lo più in casa di Carla Vasio.
Ho ritrovato poi molte delle voci dei parlamenti in occasione delle “Parentele fantastiche (serata del pensiero letterario indipendente)”, la serata di letture al Centro Sociale Brancaleone, sempre a Roma, organizzata da Paolo Morelli e incentrata su pagine dedicate al tema dell’indipendenza. Era il primo giugno.
Stare ad Aosta non mi consente di mescolarmi a quei parlamenti tanto spesso quanto vorrei. Ma mi sono consolato ritrovando la bellezza di quei conversari inquieti in un intenso libro collettivo, “testo originale” (pubblicato da Empirìa nel marzo 2012).
La prima sezione del volume parte da una doppia domanda: “perché leggo? perché scrivo?”
Domanda importante (la più importante, la più vasta) per chi scrive, e dunque legge. Le risposte dei parlamenti sono varie ma non incompatibili – i parlamenti è in effetti una creatura unica, dalle molte teste, si vuole presentare come il prodotto del lavorio di molti, ma un prodotto coerente in sé, un corpo formatosi attorno ad alcuni punti fermi, condivisi da tutti i suoi membri, o, a questo punto, le sue membra. Per questo, invece di parlare dei singoli autori, preferisco parlare della somma delle loro voci come di un contrappunto unico.
C’è, in queste pagine, e nei contributi di ognuno, un’insofferenza prodiga di ironia nei confronti delle mode letterarie e editoriali; la rivendicazione di un rapporto fruttuoso e creativo con la tradizione (lì sta la autentica originalità); la scrittura (ma anche la lettura) intesa come atto prezioso di riscoperta del mondo e “orientamento” di sé; oppure come accesso a un mondo alternativo alla quotidianità, sotto la spinta doppia dell’insoddisfazione e del desiderio di conoscenza; c’è un’idea di incontentabilità, di scavo perenne, di progettualità inesausta; c’è, infine, ad animare tutti i contributi, un senso prezioso di comunicazione, vissuta come una necessità anche morale: l’esperienza dell’elaborazione creativa da faccenda personale, intima, diventa per i parlamenti oggetto di discussione comune, di condivisione collettiva.
Si incontrano parole importanti nei piccoli saggi che preludono ai brevi contributi creativi: che so, amore, dolore, orgoglio. Sono parole che danno la misura di quanto sia importante, vitale il legame con la parola, la ricerca ostinata della parola giusta. Anche nelle riflessioni più confidenziali, quelle improntate all’understatement, si legge un’idea alta di scrittura – accanto a questa, si intravede un senso amarognolo di messa al bando. I parlamenti, dicevo, non si riconoscono nell’andazzo compiaciuto, approssimativo e superficiale di oggi. Il loro lavorio paziente e complesso attorno alla parola scritta in un certo senso li emargina – solo in un certo senso, ovviamente: nel senso cioè dei salotti televisivi, che so, degli eventi culturali pensati secondo strategie di puro marketing, della spettacolarizzazione della cultura e della riduzione degli scrittori a personaggi, a macchiette o a divi o a macchiette di divi. Questa emarginazione, se la vogliamo chiamare così, è però anche la forza dei parlamenti, ed è vissuta con una buona dose di orgoglio, come segno di una alterità.
(Ora che ho parlato dei parlamenti come fosse una cosa sola, posso sussurrare i nomi di chi ha partecipato alla composizione del “testo originale”: Massimo Barone, Marita Bartolazzi, Fabio Ciriachi, Fabio Donalisio, Paolo Morelli, Giorgio Patrizi, Carla Vasio.)
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