"Dovevo innanzitutto procreare me stesso"

Questo è il mio libro del 2019, anche se lo commento a 2020 iniziato; troppo e troppo radioattivo il materiale che offre per maneggiarlo senza la protezione di almeno un po' di tempo. In ritardo appare anche nella sua prima traduzione italiana (che è di novembre 2019), visto che la raccolta dei due racconti lunghi da cui è composto è stata pubblicata in Germania nel 2010, e i testi risalgono addirittura agli anni Ottanta-Novanta, a cavallo della caduta del Muro di Berlino. Evento, ci si attenderebbe, epocale in particolare per uno scrittore come Hilbig, nato e vissuto nella Germania dell'Est, che lo aveva cocciutamente censurato, ma che nel secondo racconto ("Vecchio scorticatoio"), del 1991, viene evocato, deformato, grottescamente decostruito, nei termini di un crollo sotterraneo, di un'affossamento invisibile ed enorme, che ha l'effetto di far crollare su se stesse strutture vacillanti di archeologie industriali, un tempo in frenetica attività estrattiva, ma ora abusivamente occupate per lo svolgimento di attività innominabili (l'utilizzo delle carni e delle cotiche di animali morti) da parte di uomini senza passato e senza volto. Mai avevo letto una rappresentazione più efficace della realtà di quel punto di svolta, nemmeno in autori altrettanto coinvolti e molto più celebrati: evidentemente, per renderne adeguatamente l'enormità, e l'ambivalenza, occorreva proprio un punto di vista sghembo, espressionistico, più aderente rispetto a una riflessione razionale, geometrica, per quanto partecipata. Certi passaggi generano emozioni definitive: gli operai che lavoravano nello scorticatoio "erano l'esito più sostanziale della società chiusa, una società concentrata ormai solo sulla propria autoconservazione. Erano diventati così radicalmente altruisti, ossia identificabili con il sistema nella forma più pura, che da tempo si limitavano a odorare ... da dentro e da fuori ... dentro e fuori ... fiutare piste era la loro unica possibilità di orientamento, dovevano desiderare d'istinto una società morta perché la conservazione di un organismo simile non offriva stimoli imprevisti al loro naso" (p. 194). Le forme espressive escogitate da Hilbig - mai fini a se stesse, sempre funzionali - devono aver reso eccitante il lavoro (egregio) dei traduttori: "Nemmeno sulla via di casa tornai lucido, continuavo ad allucinare sopra di me un soccuocere invisibile di fumi appestati che gocciolavano grasso fuso .. sì, la miscela gassosa non fuoriusciva soltanto dalle ciminiere, l'avevo vista trapelare anche dalle finestre spaccate, svaporare da crepe e fessure nei muri, sembravano alitarla perfino i mattoni rosso cupo del vecchio ritrovo" (p. 180). Se il protagonista della seconda prosa è il paesaggio, terreni scorticati dalle escavazioni, solcati da acque inquinate, popolati da rovine industriali semi-diroccate, nel primo racconto ("Le femmine") si assiste alla progressiva rovina sociale e psichica di un uomo, di un operaio di una fabbrica metallurgica nella quale lavorano prevalentemente donne, che nel tempo libero scrive ossessivamente, e che viene licenziato, espulso dal sistema, dalla famiglia e dalla stessa vita, e vaga in non-luoghi urbani in preda alla terribile allucinazione di non riuscire più a vedere le donne. Esperienze che molto devono ai dati biografici, del tutto originali anche nel panorama tetesco-orientale, dell'Autore. In questa prosa lirica e terribile nessuna visione ci viene risparmiata, quasi ci trovassimo immersi in un infernale paesaggio di Hyeronimus Bosch: è come se immergessimo il nostro braccio, assieme a lui, nel magma informe, lurido, molle e peloso del suo (e del nostro) inconscio, nelle escrezioni prodotte dalle nostre più arcaiche paure (la prima di tutte: quella di impazzire), per scoprire, inaspettatamente, che è proprio nell'universo oppressivo che egli può paradossalmente superare il proprio sintomo, perché il suo mondo (il suo passato di bambino e quello del suo Paese) è ancora imprigionato, è un'immensa prigione. Clamorose le descrizioni della fabbrica mostruosa, dell'anfratto rovente insaccato nella terra dal quale il protagonista scruta, come un ratto da un tombino, il viso schiacciato su una grata nel pavimento, le operaie che lavorano a macchinari enormi, faticosi e sbuffanti: "sì, la cantina dove scendevo quando mi sentivo annoiato a morte dalla mia eterna preoccupazione del desiderio" (p. 94). Meravigliose, per perspicacia, le peregrinazioni mentali, che brillano come rubini nell'aggrovigliarsi inestricabile dei pensieri, delle immagini, dei ricordi estratti a forza, dello scardinamento di ogni rimozione: "Prima di cadere nel sonno profondo però vennero a tormentarmi pensieri che mi facevano trasalire di continuo; giravano in tondo con un movimento di macina sotto la corteccia cerebrale ... mi accorsi che erano pensieri su me stesso, perentori, che apparivano come verità davanti a cui falliva ogni possibilità di obiezione" (p. 83). Le verità della solitudine più dolorosa, quella di cui si crede di poter acquisire la cognizione, quella che ci fa guardare gli altri come mondi lontanissimi ("avevo la sensazione di essere rinchiuso in una scatola sparata nello spazio, dove tuti i ricordi venivano distrutti" - p. 73), sperando "che non avvertissero quant'ero succube della mia ansia di farmi amare", perché "ero convinto che mostrando tale debolezza mi sarei giocato ogni possibilità di essere amato, che se avessero ravvisto anche solo un briciolo della mia apprensionemi avrebbero immediatamente disprezzato" (p. 85).
Wolfgang Hilbig ci offre un'esperienza commovente ed estrema di confronto con il versante osceno, violento, sconcio e disgustoso del nostro essere, con le immagini deformi che compaiono nei nostri sogni, e lo fa con un linguaggio crudo, una forma sciancata e scintillante, un completo affidamento alla verità, che lo rendono, a mio avviso, un classico di cui non potrei fare a meno.
Trad. di R. Gado e R. Cravero (gli stessi di Clemens Meyer)
5 stelline

Jan 9, 2020, 7:02 PM
Straordinario

Dei due racconti "Vecchio scorchitatoio" è un vero capolavoro. Hilbig ha un modo di scrivere affascinante, ricchissimo, profondo, ipnotico. La traduzione è eccellente. Questo scrittore ancora poco
tradotto e quindi semisconosciuto in Italia, si aggiunge alla schiera degli autori della ex DDR, miniera straordinaria di talenti, tutti con un filo conduttore caratterizzato da straniamento, malinconia, spaesamento, insoddisfazione.
"Vecchio scorticatoio" è davvero qualcosa di superiore e di unico, bellissimo!

Nov 14, 2020, 7:40 PM

Due racconti che hanno in comune l'espressione di impotenza e rabbia verso il regime DDR ma nello stile diversi. Vecchio scorticatoio ha una scrittura ricercata a tratti confinante con la poesia. Io preferisco il primo, Le femmine, brutale, incisivo, con un linguaggio più diretto e coinvolgente.

May 1, 2020, 1:10 PM